mercoledì 16 giugno 2010

TAR Piemonte, Sez. II, 10 giugno 2010, n. 2750

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 1263 del 2009, proposto da:
Fontaneto Autoservizi S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Prof. Vittorio Barosio e Fabio Dell'Anna, con domicilio eletto presso l’avv. Prof. Vittorio Barosio in Torino, corso G. Ferraris, 120;
contro
Regione Piemonte, rappresentata e difesa dall'avv. Marco Piovano, con domicilio eletto presso il medesimo in Torino, piazza Castello, 165;
Provincia di Novara, rappresentata e difesa dall'avv. Mauro Renna, con domicilio eletto presso l’avv. Luigi Gili in Torino, via Vela, 29;
per l'accertamento
del diritto della Fontaneto Autoservizi s.r.l. di ricevere la somma di euro 4.780.949,31 - o quell'altra somma che sarà determinata in corso di causa - a titolo di "compensazione" (a norma dei Regolamenti C.E.E. n. 1191/1969 e n. 1893/1991) degli oneri economici da essa sostenuti negli esercizi dal 1999 a 2007 per l'adempimento degli obblighi di servizio pubblico imposti dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Novara, per effetto della sottoscrizione dei rispettivi "contratti di servizio" recanti la concessione del servizio di trasporto pubblico locale,
e per la conseguente condanna
della Regione Piemonte e della Provincia di Novara a corrispondere alla Fontaneto Autoservizi s.r.l. le somme sopra indicate, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria,
previa dichiarazione di nullità
dell'art. 6 dei contratti stipulati inter partes per gli esercizi dal 1999 al 2007, e delle ulteriori clausole in essi contenute, nella parte in cui prevedono la corresponsione alla ricorrente, concessionaria del servizio di trasporto pubblico locale, di somme non sufficienti ad assicurare il rimborso integrale, calcolato nel modo previsto dal reg. CEE n. 1191/1969 (e, cioè, secondo criteri di effettività), degli oneri economici da essa sostenuti per l'adempimento degli obblighi di servizio pubblico,
previa disapplicazione
e/o annullamento (quanto agli atti regolamentari e amministrativi)
di ogni disposizione (di rango legislativo, regolamentare o amministrativo) che escluda il diritto della ricorrente di ricevere direttamente dalla Provincia di Novara e dalla Regione Piemonte il rimborso integrale, calcolato nel modo previsto dal reg. CEE n. 1191/1969 (e, cioè, secondo criteri di effettività), degli oneri economici da essa sostenuti per l'adempimento degli obblighi di servizio pubblico,
e previa idonea misura cautelare
nella forma dell'ingiunzione ex art. 21 comma 8 della legge n. 1034/1971
(come modificato dall'art. 3 comma 1 della legge n. 205/2000)
nei confronti della Regione Piemonte e della Provincia di Novara, in relazione alla suddetta somma di euro 4.780.949,31 o, in subordine, a titolo di "provvisionale", almeno in relazione alla somma di euro 674.756,20.

Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Piemonte e della Provincia di Novara;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 maggio 2010 il dott. Paolo Giovanni Nicolo' Lotti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso in oggetto, parte ricorrente espone di esercitare professionalmente l’attività di trasporto pubblico di persone su linee automobilistiche locali (urbane, extraurbane, regionali ed interregionali), in adempimento degli obblighi di servizio pubblico imposti ad essa dagli enti locali: fino al 1998, in virtù di appositi provvedimenti di concessione (e relativi disciplinari, conformi al modello di cui alla deliberazione della Giunta Regionale 25.11.1991, n. 317-10885) sottoscritti dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Novara; a decorrere dal 10.1.1999, a seguito del trasferimento delle relative competenze agli enti locali, per conto della stessa Provincia di Novara con oneri a carico della Regione Piemonte, in virtù di appositi “contratti di servizio” annuali, più volte prorogati.
Si espone che l’imposizione degli obblighi di servizio pubblico comporta svantaggi economici che sono evidentemente contrari all’interesse commerciale dell’impresa privata e di entità tale che questa non sarebbe in grado di sopportarli, non potendo essere integralmente remunerati dagli introiti derivanti dalle tariffe corrisposte dagli utenti, fissate dall’Amministrazione con criteri politici, inferiori al valore economico delle prestazioni; per evitare che ciò possa alterare il mercato, la normativa comunitaria (Regolamento C.E.E. n. 1191/1969 del Consiglio in data 26.6.1969, modificato dal Regolamento C.E.E. n. 1893/1991 del Consiglio in data 20.6.1991) e quella italiana (d. lgs. n. 422/1997, cd. Decreto Burlando) hanno previsto che gli oneri economici derivanti dall’adempimento dei suddetti obblighi di servizio pubblico siano integralmente rimborsati alle imprese di trasporto private dall’ente pubblico, per la parte non coperta dagli introiti tariffari con il meccanismo delle compensazioni economiche. Questo meccanismo è stato recepito espressamente dal legislatore italiano nazionale con il d. lgs. n. 422/1997 e dalla Regione Piemonte con la l. r. n. 1/2000.
Si espone ancora che il d. lgs. n. 422/1991 prevede a regime la stipulazione di “contratti di servizio” da aggiudicarsi a seguito di gara e previa istruttoria che individui l’assetto complessivo dei servizi di trasporto locali; in via provvisoria, nelle more dell’approvazione della legge regionale di attuazione del suddetto d. lgs. 422/1997, la Giunta Regionale del Piemonte ha emanato la deliberazione 16.11.1998, n. 74-25984, con la quale ha conferito alle Province e ai Comuni le funzioni amministrative e finanziarie riguardanti il trasporto pubblico locale, con specifico riferimento ai servizi automobilistici già “delegati” a tali Enti locali a norma della l. r. n. 1/1986; ha, inoltre, definito l’ammontare del Fondo regionale trasporti, attribuendo ai suddetti Enti locali le risorse economiche corrispondenti.
Si espone che l’applicazione delle disposizioni suddette era stata prorogata anche all’esercizio 2000 per effetto della deliberazione della Giunta Regionale del Piemontesi 3.12.1999, n. 35-28910 e, a seguito dell’emanazione della L.R. n 1/2000 (Norme in materia di trasporto pubblico locale in attuazione del d. lgs. 19 novembre 1997, n. 422 ), era stata sostanzialmente confermata per tutti gli esercizi successivi che qui rilevano, fino al 2007, per effetto delle deliberazioni della Giunta Regionale del Piemonte in data 1° marzo 2000, n. 98-29587, in data 1° agosto 2003, n. 78-10244 e in data 19 febbraio 2007, n. 8-5296. In applicazione delle disposizioni suddette, la Regione Piemonte ha predisposto un contratto-tipo, sulla cui base la Provincia di Novara e la ricorrente, a decorrere dal 1.1.1999, hanno sottoscritto ogni anno un contratto di servizio per la regolamentazione dell’affidamento del servizio di trasporto pubblico di persone; in altri casi è stata semplicemente sottoscritta una proroga del contratto già stipulato l’anno precedente.
Si espone che, a fronte dell’imposizione degli obblighi di servizio pubblico, il contratto prevedeva la corresponsione al concessionario di compensazioni economiche determinate con riferimento alla specifica situazione aziendale per quanto concerne sia i costi che i ricavi. Si assumeva come base di calcolo la contribuzione chilometrica, corrisposta dalla Regione Piemonte al concessionario negli esercizi 1997 e 1998, rappresentativa del costo derivante dagli obblighi di servizio in condizioni di efficienza media e dei ricavi ritraibili dall’esercizio delle linee oggetto del contratto.
Sono state esplicitamente escluse variazioni dell’importo delle compensazioni economiche anche qualora la situazione di fatto dovesse rivelarsi, per qualsiasi causa, diversa da quella ipotizzata nel “contratto”. Dall’Allegato 7 al medesimo “contratto di servizio” si evincerebbe che le suddette compensazioni economiche, in realtà, corrispondono alle contribuzioni aziendali per linea gia riconosciute dalla Regione Piemonte nel precedente regime disciplinato dalla legge n. 151/1981. Analoga precisazione si rinverrebbe anche nell’art. 5.2. del “contratto”, che definisce i corrispettivi dovuti al concessionario come “contributo chilometrico a titolo di compensazione degli obblighi di servizio.
Si espone, infine, che le clausole appena illustrate si ripetono, pressoché identiche, in tutti i contratti riguardanti gli esercizi successivi al 1999; con specifico riferimento ai corrispettivi economici dovuti al concessionario, in tutti i contratti successivi scompare il riferimento alla metodologia che ha condotto l’Amministrazione a quantificare concretamente il corrispettivo dovuto al concessionario, ma viene mantenuto il medesimo importo, cioè la contribuzione chilometrica prevista nel contratto base del 1999, a prescindere da qualsivoglia valutazione circa i costi e i ricavi effettivi e, in particolare, senza tenere conto dei notevoli incrementi subiti tra il 1999 e il 2007 dalle diverse componenti dei costi. L’Amministrazione ha sempre provveduto a liquidare i soli importi economici previsti nei (rispettivi) contratti di servizio, che rimborsano solo una parte dei costi effettivamente sostenuti per l’adempimento degli obblighi di servizio pubblico imposti e la ricorrente ha interesse a riscuotere le somme ad essa dovute, anche al fine di ristabilire i propri equilibri contabili e di recuperare competitività sul mercato.
Secondo parte ricorrente, i motivi di accoglimento si baserebbero sui seguenti argomenti:
- Applicabilità del Regolamento C.E.E. n. 1191/1969 del Consiglio del 26.6.1969 (nel testo modificato dal Regolamento C.E.E. n. 1893/1991 del Consiglio del 20.6.1991) e, in particolare, degli artt. 1-2-5-6-9-10-11-13-14-20, nonché dei principi espressi nel 1° - 2° - 11° - 12° - 14° - 15° “considerando” del Regolamento C.E.E. n. 1191/1969. Disapplicazione della disciplina interna (legislativa e regolamentare), nonché disapplicazione e/o invalidità degli atti amministrativi e delle clausole contrattuali per contrasto con le fonti comunitarie.
- Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia C.E. a norma dell’art. 234 del Trattato C.E.
- In ordine al quantum delle somme dovute dall’Amministrazione, la ricorrente sottolinea che la prova scritta del proprio credito sarebbe pari, a € 4.780.949,31.
Si costituivano le Amministrazione intimate chiedendo il rigetto del ricorso.
Alla pubblica udienza del 26 maggio 2010, il ricorso veniva posto in decisione.
DIRITTO
Preliminarmente rileva il Collegio la propria competenza giurisdizionale, competenza cui necessariamente si perviene ponendo attenzione alla natura giuridica del contratto di servizio concluso tra ricorrente e Amministrazione e che è alla base della richiesta attorea.
Non ignora il Collegio che una parte della giurisprudenza amministrativa sostiene che appartenga alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il diritto, di cui il concessionario del servizio di trasporto pubblico locale assume essere titolare perché riconosciutogli dalla normativa comunitaria, ai contributi che la Regione è tenuta a corrispondere alle imprese di trasporto per assicurare alle stesse l'equilibrio di bilancio (cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 4 novembre 2009, n. 1181).
Tuttavia, tale giurisprudenza trascura il dato per cui tali contratti non sono, in realtà, negozi di diritto privato, ma cd. contratti ad oggetto pubblico; in particolare, essi ricadrebbero nella categoria degli accordi sostitutivi di provvedimento, in quanto sostitutivi del provvedimento concessorio, precedentemente sussistente e regolante i rapporti gestore-Amministrazione; tali accordi, quindi, ricadono nella giurisdizione esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 11 della l. 241 del 1990.
La particolarità degli accordi in esame è quella di appartenere alla species dei cd. “accordi necessari”, species tipica del settore dei servizi pubblici locali, nella quale è il legislatore stesso ad imporre la conclusione di un accordo in luogo del provvedimento.
In questa ipotesi, la sostituzione del modulo concessorio, quale tipico strumento provvedimentale ampliativo di natura unilaterale, con il modulo bilaterale è attuata direttamente dal legislatore, ma non per questo ne viene modificata ed inficiata la natura giuridica e l’appartenenza alla categoria degli accordi ex art. 11 che, come è noto, costituiscono forme alternative, ritenute più moderne e comunque più flessibili, di esercizio di una potestà che rimane, tuttavia, genuinamente pubblica.
Con riferimento ai contratti di servizi, è noto che il legislatore ha introdotto il concetto di “contratto” come strumento di regolazione dei rapporti tra Ente e azienda speciale per effetto della previsione contenuta nell’art. 4 L. 95/95 (art. 114 TUEL). Un riferimento allo stesso come “convenzione con le società miste” si trova anche nell’art. 5 D.P.R. 533/96.
Le normative di settore (cd. Leggi “Ronchey” L. 4/93, “Galli” L. 36/94, “Burlando” D. Lgs. 422/97, “Letta” D. Lgs. 164/00) fanno riferimento allo strumento negoziale rapportandolo agli elementi di valutazione dei risultati del servizio affidato.
L’art. 35 L. 448/01 (riformando gli artt. 113 e 113-bis TUEL) ha introdotto in via generale l’obbligo di contratto di servizio per la regolazione dei rapporti tra P.A. e soggetto erogatore del servizio pubblico in relazione ad ogni ipotesi di affidamento di servizio pubblico locale e previsto che il contratto di servizio vada allegato al bando di gara, nella fase di scelta del soggetto gestore.
Si può definire il contratto di servizio come il rapporto mediante il quale un Ente pubblico affida ad un erogatore (il gestore) lo svolgimento di determinati servizi pubblici, con contestuale ed eventuale trasferimento di pubbliche funzioni, nonché di beni pubblici strumentali allo svolgimento del servizio affidato e con l’individuazione di specifici obblighi standard di servizio pubblico: le parti sono individuate da un lato nell’Amministrazione pubblica affidante e, dall’altro, nel soggetto gestore del servizio affidato, affidatario.
L’introduzione di tale figura ha senz’altro determinato perplessità in ordine alla relativa natura giuridica.
Il Collegio osserva, tuttavia, che l'attività amministrativa, anche quando si avvale di strumenti privatistici, resta comunque attività funzionalizzata, e, sotto questo profilo (che è l'unico rilevante), attività amministrativa, soggetta, pertanto, alle regole generali dell'attività amministrativa, diverse da quelle che disciplinano l'attività privatistica.
Nell'ambito delle riflessioni sulla figura del contratto di diritto pubblico, infatti, la dottrina e, in parte, la giurisprudenza, hanno compiuto un ulteriore passo avanti di notevole ampiezza, rilevando che non esiste rapporto di necessarietà biunivoca tra carattere unilaterale del potere dell'Amministrazione e struttura unilaterale dell'atto con il quale il potere viene esercitato e che, quindi, il potere amministrativo può trovare espressione anche in atti bilaterali.
Nell'atto bilaterale, consensuale, convergono poteri diversi per natura e disciplina, ma coincidenti nel regolamento di interessi (precetto) cui l'atto intende dare vita. L'identità di contenuto precettivo rende possibile che il consenso sia reso nell'esercizio di poteri diversi, il potere amministrativo della parte pubblica e l'autonomia privata della controparte. Nulla osta alla fusione, o alla convergenza, di poteri diversi.
A prescindere da elementi che arricchiscono, ma complicano e rendono meno limpida, questa idea, il risultato che si raggiunge è di tutta evidenza: accanto ai contratti di diritto privato, dove è comunque possibile e tradizionalmente accettato riconoscere all'Amministrazione il potere di autonomia privata, vengono a delinearsi fattispecie a struttura bilaterale, nelle quali l'Amministrazione svolge un potere unilaterale non privatistico; vengono a delinearsi accordi pubblicistici e convenzioni pubblicistiche.
L'art. 11 finisce per dare corpo di diritto positivo ai risultati della elaborazione dottrinale: nell'ambito del procedimento amministrativo, sempre più luogo non di ponderazione comparativa di interessi, ma di negoziazione degli stessi, la volontà del privato, comunque necessariamente coinvolto in funzione partecipativa, concorre al confezionamento della fattispecie produttiva del precetto, o, se si preferisce, del regolamento di interessi, poiché la legge consente (o impone, nel caso dei cd. “accordi necessari”) che l'Amministrazione aderisca ad atti bilaterali, anziché adottare atti unilaterali (provvedimenti).
Gli accordi previsti dall'art. 11 nascono dalla fusione di potere amministrativo e autonomia privata, sono il risultato di valutazioni discrezionali, sono alternativi (in tutto o in parte) al provvedimento unilaterale: nel caso di specie, e nell’ambito della categoria degli accordi necessari, tale alternatività è posta a monte dall’ordinamento (dalla legge).
Ci sono ragioni di diritto positivo che impediscono di ricondurre gli accordi di cui all'art. 11 ai contratti ad evidenza pubblica; i contratti ad evidenza pubblica sono veri e propri contratti, soggetti come tali, in difetto di disposizioni legislative speciali o derogatorie, alla integrale disciplina codicistica; gli accordi non sono affatto disciplinati dall'insieme delle regole codicistiche, dato che ad essi si applicano soltanto i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili (art. 11, comma 2).
Altrettanto evidente è la differenza di disciplina processuale: per i contratti ad evidenza pubblica sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla formazione del contratto e la giurisdizione del giudice ordinario a proposito della sua interpretazione e della sua esecuzione.
Per gli accordi di cui all'art. 11 non esiste alcun riparto: tutte le controversie in materia di formazione, di conclusione e, ciò che più rileva, sul caso di specie, di esecuzione degli accordi sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Nulla impedisce, com'è ovvio, che gli accordi siano qualificati, anche dal legislatore, come contratti, ma la qualificazione, in presenza di una disciplina profondamente diversa, rischia di avere rilievo meramente astratto, se non addirittura valore soltanto terminologico.
Il contratto è figura con propri caratteri fissati con precisione: la sua sostanza non si riduce all'accordo (o al consenso), comportando l'applicazione di una determinata disciplina legislativa. Riportare gli accordi dell'art. 11 alla generale figura del contratto avrebbe senso se ciò potesse comportare l'estensione agli accordi della disciplina tipica del contratto; ma, come si è visto, la legge ha disposto diversamente.
Non qualificare gli accordi come contratti non significa affatto negare il loro carattere vincolante. Tale carattere costituisce un principio, forse il principio essenziale, della disciplina codicistica del contratto (art. 1372, comma 1, c.c.) e, come tale, è espressamente richiamato dall'art. 11.
Occorre, peraltro, avvertire che le qualificazioni giuridiche sono relative agli ordinamenti cui si ispirano. Ciò può comportare che una fattispecie complessa, nella quale abbia spazio un atto consensuale, possa essere ad un tempo considerata contratto, secondo un ordinamento, e diversamente secondo altro ordinamento.
È il caso della convenzione di lottizzazione che, qualificata in modo articolato nell'ordinamento interno, è stata ritenuta contratto nell'ordinamento comunitario (Corte di giustizia CE 12 luglio 2001, in causa C-399/98).
Pertanto, al di là della loro qualificazione formale come “contratti”, gli accordi in esame sono da ritenersi atti, anzi contratti, di diritto pubblico, sussistendone tutti gli elementi qualificanti: l'essere esercizio di potere amministrativo; l'essere ordinato al perseguimento dell'interesse pubblico; l'essere prevista la giurisdizione amministrativa per le relative controversie.
Come è noto, il contratto di diritto pubblico è figura conosciuta e lungamente studiata sia dai giuristi tedeschi che da quelli francesi: in quegli ordinamenti ha una precisa ragione d’essere poiché il criterio di riparto delle giurisdizioni fa’ leva su tale qualificazione, riferita vuoi alle norme (in Germania) vuoi ai soggetti (in Francia). Pertanto, stabilire che un contratto sia di diritto pubblico (ovvero, secondo diversa terminologia, un contratto amministrativo) comporta che di esso si occupi il giudice amministrativo; mentre se non abbia questo carattere, di esso dovrà occuparsi il giudice ordinario.
Nel nostro sistema, vale lo stesso discorso: se gli atti consensuali sono veri e propri contratti, vi sarà un riparto di giurisdizione GO-GA, a seconda della fase contrattuale controversa; se si tratta di accordi ex art. 11 (quindi, contratti ad oggetto pubblico), la giurisdizione sarà esclusivamente del G.A.
Come è noto, la natura giuridica del modulo procedimentale è stata ribadita anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 2000, la quale, nel valutare la legittimità costituzionale dell'art. 33 comma 1, del d. lgs. n. 80 del 1998 (come sostituito dall'art. 7 della l. n. 205 del 2000) in tema di giurisdizione esclusiva, ha chiarito che è materia di giurisdizione esclusiva quella che partecipa della medesima natura delle materie affidate alla giurisdizione di legittimità; la Corte ha affermato che la circostanza che si tratti di materie che partecipano della loro medesima natura è contrassegnata dal fatto che l'Amministrazione agisce come autorità, autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.
Nel ragionamento seguito dalla sentenza della Corte costituzionale si fa esplicito riferimento, ancorché incidentalmente, anche all'art. 11 della legge sul procedimento, come esemplificazione di un’ipotesi di giurisdizione esclusiva. In questo passaggio emerge come il parallelo svolto dalla Corte costituzionale tra giurisdizione esclusiva e articolo 11 sia indicativo della opinione secondo cui gli accordi amministrativi presuppongano sempre l'esistenza di potere autoritativo. Da questa prospettiva, che è utile richiamare in questa sede, si evince come non vi sia accordo amministrativo che non presupponga necessariamente esercizio di potere autoritativo. Il che induce a ritenere che non vi sia accordo senza l'astratta riconducibilità del potere esercitato nell'accordo alla categoria del potere discrezionale autoritativo. Partendo da tale asserzione, si deduce che è ipotizzabile lo strumento procedimentale consensuale di cui all'art. 11 della l. n. 241 del 1990 solo qualora vi sia esercizio, anche di tipo residuale, di potere discrezionale.
L'accordo amministrativo (sia di tipo integrativo che di tipo sostitutivo, sia eventuale che necessario) postula, infatti, come presupposto necessario, l'esistenza di potere discrezionale.
Sotto il profilo della giurisdizione, se comunque si considera la giurisprudenza della Cassazione in materia è evidente la tendenza ad un'interpretazione estensiva dei limiti della giurisdizione del giudice amministrativo ex art. 11, l. n. 241 (Sezioni Unite, sentenza n. 87, in data 2 marzo 2001; Sezioni Unite, 15 dicembre 2000, n. 1262; Sezioni Unite 1° febbraio 1999, n. 8; Cass., Sez. Un., 10 dicembre 2001, n. 15608).
In quest’ottica, dunque, l’esercizio consensuale di una potestà pubblicistica e la correlativa composizione di interessi che rilevano nel rapporto amministrativo non potrà mai essere oggetto di un contratto di diritto privato, ma dovrà necessariamente essere regolato da un provvedimento, ovvero, ai sensi dell’art. 11 della l. 241 del 1990, dopo la riforma apportata nel 2005 che ha generalizzato l’istituto, da un atto che è manifestazione di esercizio consensuale della potestà pubblicistica e che viene denominato “accordo sostitutivo”.
In quest’ottica, dunque, poco importa che l’accordo non sia frutto di una libera scelta, discrezionale nell’an, della PA ma sia imposto già a livello normativo. Ciò che conta è che l’attività che è oggetto della manifestazione negoziale (chiamata accordo a livello di disciplina generale) sia un’attività oggettivamente pubblicistica e, come tale, non suscettibile di regolamentazione privatistica con lo strumento contrattuale descritto dagli artt. 1321 e ss. c.c.
Come si è detto, la premessa di tale ragionamento è tutta incentrata sulla profonda trasformazione, avvenuta a partire dagli anni ’90, della configurazione dell’Amministrazione e, più in generale, del potere pubblico, non più caratterizzato da tratti autoritativi, ma da tratti quasi esclusivamente di servizio al cittadino, servizio che può svolgersi in modo unilaterale (e, dunque, tradizionale), ovvero consensuale.
Il potere non è e non può più essere, quindi, pura autorità, ma servizio, o per meglio dire, funzione, vale a dire, plasticamente e dinamicamente, attività svolta nell’interesse altrui (del cittadino).
Se queste sono le coordinate di fondo che contrassegnano l’esercizio consensuale del potere (pur sempre potere pubblico, come riconosciuto dalla stessa Consulta nella citata sentenza n. 204 del 2004), se ne deve anche dedurre che tutte le manifestazioni che appaiono denominate come “contratti” non possono in realtà essere classificate come tali se, in esse, sono implicate potestà pubblicistiche, volte alla cura di interessi pubblici, così come i “contratti” di servizio.
Si può ancora aggiungere al riguardo, che, allo stesso modo, anche i “contratti” di partenariato pubblico privato possono essere manifestazioni consensuali di esercizio di potestà pubblicistiche; e non soltanto con riferimento alle concessioni, tipico provvedimento amministrativo che resta tale nel nostro sistema (pur avendo una diversa configurazione a livello comunitario, per finalità comunitarie), ma anche, ad esempio, con riferimento alle società miste.
Attraverso la società mista, infatti, si realizza un fenomeno che, per certi versi, è paragonabile a quello dell’impresa di gruppo: in questo caso, si tratterebbe di un’attività amministrativa di gruppo, imputata formalmente a più soggetti distinti, ma in realtà unica attività, che non muta la propria natura genuinamente pubblicistica a seconda del soggetto che la svolge, poiché è e resta attività pubblicistica unitariamente intesa. Con l’unica precisazione che tale attività si distingue in fasi diverse, a seconda del soggetto che le esercita così come, in un’impresa di gruppo, l’attività unitariamente intesa, e che configura un’unica impresa, si distingue in fasi diverse (ad esempio la fase di direzione e controllo e la fase operativa, per quanto riguarda il diritto delle imprese); per il diritto amministrativo la fase della regolazione e del controllo rimangono in capo all’ente pubblico tradizionalmente inteso; la fase gestionale e operativa viene, invece, imputata ad altro soggetto privato, ma che esercita un’attività oggettivamente pubblica.
Questo implica, pertanto, che la partecipazione societaria, la costituzione o l’acquisto di quote o azioni, finalizzati non ad un mero investimento finanziario ma alla gestione, seppure in una fase diversa e indiretta, di un’attività pubblicistica e, quindi, finalizzati ad esercitare potestà pubblicistiche (intese, ora, come attività direttamente nell’interesse della collettività e che possono assumere anche vesti consensuali) non sono altro che accordi sostitutivi di provvedimento, da intendersi come sostituzione di una generale attività provvedimentale unilaterale con un modulo consensuale, modulo che rimane pur sempre destinato all’esercizio, in forme nuove, diverse, per certi versi più subdole, di una potestà pubblicistica.
Con la conseguenza che lo statuto dei relativi atti è uno statuto pubblicistico, cui può aggiungersi l’applicazione di regole privatistiche (obbligazioni e contratti), in quanto compatibili.
E con l’ulteriore corollario della giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo su ognuna delle vicende, costitutive, modificative, nonché esecutive, del relativo atto consensuale, denominato impropriamente “contratto”, ma in realtà, laddove, come detto, sia destinato allo svolgimento di un’attività oggettivamente pubblicistica, avente la natura di accordo sostitutivo ex art. 11 l. 241 del 1990.
Si può ancora aggiungere che lo schema concettuale del gruppo di imprese che, come esposto, può essere trapiantato nel diritto amministrativo, poiché tale schema si fonda sull’idea che esista un’unica attività giuridicamente rilevante, pur imputata a più soggetti giuridici distinti, non è ostacolata dalla disomogeneità nelle modalità di gestione delle varie fasi dell’attività: modalità pubblicistiche le prime e modalità privatistiche le seconde.
Infatti, attualmente, anche l’attività pubblicistica tradizionalmente intesa deve essere gestita con criteri di economicità, come si esprime ormai da tempo l’art. 1 della l. 241 del 1990; il criterio di economicità deve necessariamente permeare la singola attività, il complesso di attività, nonché l’organizzazione dell’attività stessa: l’ente, in buona sostanza.
Pertanto, attualmente, non vi sono modalità di gestione dell’attività che possano confliggere con l’idea che l’attività rivolta alla gestione di un servizio pubblico sia in realtà un’attività unica, pur divisa in fasi e imputata a soggetti diversi, e che tale attività sia espressione di una potestà fondamentalmente e ineludibilmente pubblicistica, intesa nel senso moderno, che, come tale, può sì esplicarsi con moduli consensuali, ma non tramite il contratto di diritto privato, bensì tramite lo schema disegnato in via generale, quale archetipo, dall’art. 11 della legge sul procedimento.
E’ ovvio che tale configurazione dei rapporti tra ente pubblico e privato gestore può riconoscersi in relazione alle società miste, ma anche in relazione alle concessioni o agli atti consensuali che le sostituiscono come, nella specie, i “contratti” di servizio.
Il concetto di fondo permane identico e ha, come prima conseguenza, la sottoposizione dell’atto consensuale alla giurisdizione del G.A., in quanto tale atto consensuale ha natura di “accordo”.
Conclusivamente: i “contratti” di servizio sono da ascrivere alla categoria degli accordi ex art. 11 l. 241 del 1990, nella species degli accordi necessari; sono espressione di funzione amministrativa (regolazione dei servizi pubblici, nel caso di specie, con il compito di fornire alla collettività servizi di trasporto conformi a norme di continuità, regolarità, qualità e capacità, a determinate condizioni e tariffe, nonché servizi complementari e adeguamenti dei servizi alle reali esigenze); rientrano a pieno titolo nella giurisdizione esclusiva del G.A. a norma dell’art. 11 richiamato.
Veniamo, ora, alla relativa disciplina, croce e delizia dell’analisi dottrinale e giurisprudenziale.
Tali atti, in quanto pur sempre espressione di potere, in forme nuove, comportano, infatti, inevitabili ricadute in termini di disciplina.
Preliminarmente, si deve osservare che la funzione amministrativa ha dismesso da tempo le vesti delle funzioni sovrane, per acquisire il ruolo, aggiornato con l'idea della sovranità popolare, di attività di servizio.
L'autorità, tecnicamente intesa, non è altro che eteroregolazione; il potere autoritativo è potere di disciplinare interessi altrui (anche senza il consenso e il concorso dei titolari degli interessi da disciplinare).
L'autorità è pertanto attributo del potere; in particolare, del potere precettivo. Non è attributo dell'atto nel quale o con il quale il potere viene esercitato; l'atto può qualificarsi semmai imperativo. Così è per il provvedimento amministrativo, secondo una larga parte della dottrina e per la giurisprudenza.
Va peraltro sottolineato che il potere precettivo dell'Amministrazione può essere autoritativo, ossia capace di eteroregolazione, e può anche non esserlo.
In questo secondo caso, pur non essendo capace di eteroregolazione, non cessa di essere potere (precettivo) amministrativo; resta comunque un potere funzionalizzato ed assoggettato alla disciplina tipica (statuto) dell'azione precettiva dell'amministrazione.
Il potere autoritativo si esprime di norma in atti (precettivi) unilaterali; ma può esprimersi anche in atti bilaterali (consensuali), restando potere autoritativo, come si è detto.
Questo accade, infatti, proprio con gli accordi di cui si è ampiamente discorso: in tali atti consensuali l'Amministrazione utilizza il suo potere autoritativo inteso come potere funzionalizzato, mai (almeno in linea di principio, e fatte salve eventuali situazioni speciali, o, meglio, eccezionali) un potere libero, qualificabile (a pieno titolo) come autonomia privata.
Si tratta sempre, autoritativo o non autoritativo che sia, di potere (precettivo) soggetto allo statuto tipico dell'azione amministrativa.
Nella sua azione precettiva, ossia nella elaborazione della regolazione degli interessi pubblici e di quelli privati che con i pubblici si incrociano ed intersecano, l'Amministrazione esercita sempre lo stesso potere precettivo, che può essere autoritativo o meno, ma rimane sempre un potere funzionalizzato.
Non essendo un potere libero, non è possibile confonderlo con l'autonomia privata; essendo sempre lo stesso, esso è disciplinato, almeno nelle linee fondamentali, sempre nello stesso modo. Per esso vige un solo statuto giuridico.
Lo statuto non si limita ad imprimere al potere precettivo il c.d. vincolo di scopo (finalizzandolo cioè alla soddisfazione dell'interesse pubblico), ma lo sottopone ad una serie di regole, formali e sostanziali; le quali possono essere riassunte, rispettivamente, nel principio del procedimento e nel principio del rispetto degli amministrati, includendo in questi ultimi sia gli interessati sia i terzi. Al principio sostanziale fanno capo le regole della imparzialità, della proporzionalità, della trasparenza, e così via.
In definitiva, l'azione precettiva dell'Amministrazione non è solo funzionale al pubblico interesse, ma deve svolgersi secondo le regole del procedimento e deve scegliere le soluzioni che pregiudichino nella misura minore possibile (ovvero soddisfino nella misura maggiore possibile) gli interessi privati che si intrecciano con l'interesse pubblico.
Si potrebbe, peraltro, incidentalmente ed ulteriormente, affermare che, se l'azione precettiva dell'Amministrazione è in ogni caso disciplinata secondo lo statuto che è stato a larghe linee ricostruito e che trova il suo fondamento nella Costituzione, non sussistono ostacoli né limiti a che l'azione stessa si concretizzi in atti consensuali puri (vuoi di diritto comune, vuoi di diritto speciale): tuttavia, l'azione consensuale non può essere rapportata ad una situazione soggettiva che risponda alle caratteristiche essenziali dell'autonomia contrattuale, dato che l'Amministrazione non può liberamente determinare il contenuto del contratto (art. 1322, comma 1, c.c.) o dell'atto consensuale in genere; e va invece riferita ad un potere precettivo di diversa consistenza, funzionalizzato, vincolato, disciplinato nella forma e indirizzato nella sostanza: il potere amministrativo.
Il potere precettivo dell'Amministrazione ha vincoli, formali e sostanziali, che l'autonomia privata non ha, e non può avere. Esso ha pertanto un impatto assai più modesto (e controllabile) sulla regolazione degli interessi privati di quanto non possa avere un potere libero, del tipo dell'autonomia privata. Sia a proposito dei contratti sia a proposito degli accordi non è da sottovalutare la sproporzione esistente di fatto tra Amministrazione e privati: la prima ha una posizione forte, che le consente di predisporre in tutto, o in larghissima parte, il contenuto dell'atto consensuale (ossia la regolazione degli interessi), limitando fortemente l'ambito di effettiva negoziabilità. Il rilievo della sproporzione di fatto tra contraenti, ben presente agli studiosi dei contratti, fa dubitare della migliore idoneità dell'atto consensuale, rispetto all'atto autoritativo, a tener conto degli interessi dei privati. È pur sempre il contraente forte che determina le scelte e le decisioni circa la disciplina degli interessi.
È ben per questo che l'idea di un diritto amministrativo paritario, affascinante in sé, rischia di rimanere un fenomeno chimerico: la sproporzione delle posizioni, anche se venisse corretta in diritto (e non sarebbe facile), si riprodurrebbe inevitabilmente in fatto.
In linea generale, è comunque da rilevare che l'ambito effettivo della negoziabilità dell'assetto degli interessi, sia che venga fissato con atto consensuale sia che risulti da atto autoritativo, si mostra fortemente limitato, come conseguenza naturale della funzionalizzazione del potere al perseguimento dell'interesse pubblico. La negoziabilità viene limitata al profilo del rispetto degli interessi privati, ma tale criterio impegna comunque e direttamente l'Amministrazione e non è condizionato dalla capacità di negoziazione dei privati.
Anche sotto questo profilo, dunque, si giustifica la sottoposizione dell’accordo allo statuto del provvedimento (e si potrebbe dire lo stesso quanto al contratto ex 1321 c.c. Concluso dalla PA, come detto), in quanto in entrambi è presente, pur in forme diverse, un potere funzionalizzato che ha, come corollari, la sottoposizione ad un regime di controllo, latamente inteso, del tutto equiparabile al provvedimento, come d’altronde afferma espressamente lo stesso legislatore nell’art. 11 in esame, che sottopone l’accordo agli stessi “controlli”, intesi in questo senso generale, che avrebbe l’omologo provvedimento che sostituisce.
Tutto ciò con inevitabili ricadute di disciplina, in parte a vantaggio del privato, che potrà fare leva sui classici strumenti di controllo come l’impugnazione per eccesso di potere (da rivolgere contro l’accordo stesso, ovvero contro la determinazione preliminare dell’Amministrazione che è alla base dell’accordo) che il privato, in ambito civilistico, non può esercitare; per contro, l’accordo e la relativa determinazione preliminare saranno sottoposti al regime dell’impugnabilità/annullabilità, con tutti i corollari riferibili, in primo luogo, ai termini di decadenza per far valere” i vizi amministrativi” dell’atto consensuale in quanto esercizio di potere.
Resta, peraltro, inteso che l’accordo, in quanto atto consensuale, sarà altresì impugnabile in tutti i casi ammessi dal codice civile, di cui saranno applicabili tutti i relativi rimedi contrattuali, purché non incompatibili con l’applicazione delle regole tratte dal regime pubblicistico: tali rimedi civilistici, dunque, si aggiungeranno a quelli pubblicistici, come, ad es. per l’azione di annullamento ex art. 1441 c.c. o per l’azione di adempimento o di risoluzione; in altri casi, ove ci sarà incompatibilità, prevarrà, come è ovvio, la disciplina e il regime di rimedi pubblicistici, con tutti i vantaggi, e gli svantaggi che essi comportano.
In primo luogo, in relazione alla violazione di norme imperative, non sarà possibile esercitare l’azione di nullità ex art. 1418 c.c., poiché tale azione è incompatibile con il regime di tutela pubblicistico approntato dall’ordinamento per reagire contro le violazioni di legge perpetrate dall’Amministrazione, in funzione di tutela del principio di legalità.
La violazione di norma imperativa è una violazione di legge e andrà trattata seconda la disciplina pubblicistica, con l’ovvia esigenza di impugnare l’atto, per tali motivi, entro 60 giorni e con la conseguenza che il vizio non può farsi valere senza esercitare tale azione finalizzata all’annullamento dell’atto stesso.
Si deve, peraltro, osservare che la dottrina e la giurisprudenza si sono occupate con assiduità della natura degli accordi, ma si sono soffermata solo sporadicamente sulla disciplina ad essi applicabile. Eppure è proprio quello della individuazione della disciplina il problema principale (e non solo dal punto di vista pratico), data la sinteticità e la scarsa intelligibilità delle disposizioni contenute nell'art. 11 della legge sul procedimento amministrativo.
A titolo di esempio, si prendano le due proposizioni incidentali inserite nel comma 1 (“senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse”): ognuna di esse dà luogo a problemi ricostruttivi di difficile soluzione.
La prima proposizione può essere intesa in più modi, attribuendole cioè un significato ampio ovvero un significato pressoché irrilevante. È chiaro infatti che un accordo tra Amministrazione e privati direttamente interessati non può pregiudicare diritti di terzi, ossia di coloro che non prendono parte all' accordo stesso: basta rammentare il comma 2 dell'art. 1372 c.c. Tuttavia è difficile pensare che la proposizione in esame non sia altro che una (inutile) ripetizione della disposizione codicistica; anche in considerazione del fatto che i terzi controinteressati hanno titolo per partecipare al procedimento amministrativo, e tenuto conto che l' accordo è uno dei possibili esiti della partecipazione, dato che l'Amministrazione può concluderlo in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'art. 10.
Si potrebbe, in questa prospettiva, ipotizzare che: a) i terzi controinteressati possano (o addirittura debbano) prendere parte all'accordo; ovvero, alternativamente, b) l'eventuale pregiudizio dei diritti dei terzi determini la patologia dell'accordo concluso tra l'Amministrazione e l'interessato. Altrimenti il riferimento alla salvaguardia dei diritti dei terzi avrebbe il valore di una semplice raccomandazione indirizzata dal legislatore all'Amministrazione che si predisponga a concludere accordi.
Infatti, l'aspetto praticamente più rilevante del problema relativo alla posizione dei terzi di fronte all'accordo attiene peraltro alla possibilità per loro di impugnarlo, ove sia lesivo dei loro diritti. L'impugnazione deve essere considerata estensibile a tutti i vizi di legittimità, secondo le norme che riguardano i provvedimenti amministrativi. Infatti, se gli accordi sono integrativi o sostitutivi di provvedimenti, devono poter essere sindacati alla stregua di provvedimenti (così come sono assoggettati agli stessi controlli); altrimenti la conclusione di un accordo al posto della emanazione di un provvedimento danneggerebbe la posizione dei terzi, in violazione della raccomandazione espressa contenuta nella legge. Il che peraltro comporta che non vengano salvaguardati solo i diritti dei terzi, ma anche, e soprattutto, i loro interessi legittimi. In questo modo acquista un significato preciso la proposizione legislativa in esame; coordinandosi altresì con l'attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo e lo statuto e il regime di diritto pubblico cui soggiace l’atto consensuale.
Il problema della disciplina applicabile, infatti, assume rilievo allorché si prenda in considerazione nel suo insieme il regime della validità degli accordi, dato che, in astratto, esso può assimilarsi al regime proprio dei provvedimenti amministrativi ovvero al regime proprio dei contratti, l'uno avente a riferimento prevalente il profilo funzionale, l'altro il profilo strutturale della fattispecie.
In astratto, si può pensare che la validità degli accordi procedimentali vada sindacata insieme alla validità dei provvedimenti che necessariamente li seguono; che, invece, la validità degli accordi sostitutivi vada parametrata sui principi della validità dei contratti. Occorre peraltro tener conto della giurisdizione, attribuita al giudice amministrativo; il quale utilizza il canone della legittimità e non quello della validità strutturale.
Come si è già esposto, e si ribadisce, tali accordi, partecipando a pieno titolo alla natura pubblicistica, in quanto esercizio di potere, manifesta un regime di rimedi parallelo per il privato contraente e per il terzo, ovvero l’azione di impugnazione prevista, nella versione normativa più recente, dall’art. 21-octies, primo comma, l. 241 del 1990. In più, in quanto anche atto consensuale, come già detto, consente, al solo contraente l’esercizio dei rimedi disciplinati dal codice civile: in caso di sovrapposizione di rimedi, come per il caso della nullità per violazione di norme imperative, di cui si è detto dovranno necessariamente, prevalere i rimedi pubblicistici, come detto, atteso il limite di compatibilità del richiamo al codice civile, peraltro esteso soltanto ai principi, come già detto, coerente con la natura giuridica degli accordi.
E’ pur vero che il Consiglio di Stato, IV sezione, nella decisione 22 giugno 2004, n. 7180 ha affermato che non è ammissibile l'impugnativa da parte del privato di un contratto d'area fondata su pretesi errori della P.A. ovvero della banca concessionaria, alla stregua dell'impugnativa prevista per i provvedimenti amministrativi, dal momento che l'annullabilità di tali accordi è retta dalla disciplina codicistica (art. 1425 ss., c.c.) che sostituisce quella dell'annullabilità propria dei provvedimenti amministrativi (art. 26, r.d. n. 1054 del 1924).
Tuttavia, al di là della massima che ne è stata tratta, il caso di specie, come è evidente dalla lettura integrale della sentenza, riguarda un’impugnazione rivolta a contestare il contenuto (vincolante) dell’accordo che, per il principio superiore di non contraddizione dei comportamenti dei soggetti dell’ordinamento, corrispondente all’antico brocardo nemo contra factum proprium venire potest, non può più essere messo in discussione: gli unici errori rilevanti, dunque, sono quelli di cui alla disciplina civilistica, non essendo operativi in radice, in quel caso, i rimedi pubblicistici (e, come abbiamo detto, i rimedi civilistici si aggiungono a quelli pubblicistici, essendo inoperanti soltanto se incompatibili).
Peraltro, lo stesso Consiglio di Stato, in precedenza, con decisione della VI sezione 15 maggio 2002, n. 2636, aveva affermato che il diritto privato assunto dalla sfera pubblica si rivela in sé neutro strumento organizzatorio (si pensi al fenomeno delle società miste) e non implica, dunque, nessuna fuga dalla funzione pubblica, con la conseguenza che né sotto il profilo della giurisdizione, né sotto il profilo della disciplina si possono trarre elementi per sottrarre l’atto allo statuto generale degli atti dei pubblici poteri.
Pertanto, e conclusivamente, si deve ritenere che la nullità dell’atto consensuale, nella specie, l’accordo o, meglio, il “contratto di servizio” per violazione di norma imperativa possa essere fatto valere soltanto tramite l’azione di annullamento ex artt. 21-octies l. 241 del 1990 e 26 r.d. 1054 del 1924.
Con l’ovvia conseguenza che non potrà applicarsi il regime di cui all’art. 1339 c.c., relativamente alla sostituzione di clausole e prezzi imposti, norma che postula la nullità per violazione di norma imperativa e che, come visto, per gli atti dei pubblici poteri non può applicarsi, essendo un predicato tipico degli atti genuinamente privati.
Identica conclusione anche nell’ipotesi in cui l’atto amministrativo (in forma unilaterale o bilaterale-consensuale) si assuma in contrasto con una disposizione di rango comunitario che, come è noto, si risolve sul piano interno in un vizio di legittimità.
Nello specifico, passando brevemente ad esaminare le disposizioni comunitarie rilevanti, si deve osservare che il Reg. 1191/69 CEE e s.m.i., relativo al settore dei trasporti per ferrovia, su strada e per via navigabile, consente agli Stati membri di imporre obblighi di servizio pubblico alle imprese pubbliche incaricate di assicurare il trasporto di passeggeri in un comune e di prevedere, per gli oneri che ne derivano, una compensazione determinata conformemente alle disposizioni del regolamento stesso: infatti, tale regolamento osta alla concessione di un'indennità di compensazione a favore di imprese incaricate del trasporto pubblico in un Comune, qualora non sia possibile determinare l'importo dei costi imputabili a quella parte di attività che costituisce esecuzione degli obblighi di servizio pubblico (Corte giustizia CE, sez. II, 7 maggio 2009, n. 504).
Secondo la disciplina comunitaria, per garantire servizi di trasporto sufficienti tenendo conto segnatamente dei fattori sociali, ambientali e di assetto del territorio o per offrire particolari condizioni tariffarie a favore di determinate categorie di passeggeri le competenti autorità degli Stati membri possono concludere contratti di servizio pubblico con un'impresa di trasporto. Le condizioni e le modalità di tali contratti sono definite nella sezione V del Regolamento.
In linea generale, infatti, secondo la normativa comunitaria, le competenti autorità degli Stati membri possono mantenere o imporre gli obblighi di servizio pubblico di cui all'art. 2 Reg. cit. per i servizi urbani, extraurbani e regionali di trasporto di passeggeri: le condizioni e le modalità, compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III e IV.
Quando un'impresa di trasporto svolge contemporaneamente servizi soggetti ad obblighi di servizio pubblico ed altre attività, i servizi pubblici devono formare oggetto di sezioni distinte che rispondano come minimo ai seguenti requisiti:
a) separazione di conti corrispondenti a ciascuna attività di esercizio e ripartizione delle relative quote di patrimonio in base alle norme contabili vigenti;
b) spese bilanciate dalle entrate di esercizio e dai versamenti dei poteri pubblici, senza possibilità di trasferimento da o verso altri settori d'attività dell'impresa.
Ai termini dell'art. 2, nn. 1 e 2, del regolamento n. 1191/69 per obblighi di servizio pubblico si intendono gli obblighi che l'impresa di trasporto, ove considerasse il proprio interesse commerciale, non assumerebbe o non assumerebbe nella stessa misura né alle stesse condizioni. Gli obblighi di servizio pubblico ai sensi del paragrafo 1 comprendono l'obbligo di esercizio, l'obbligo di trasporto e l'obbligo tariffario.
L'art. 6, n. 2, del regolamento n. 1191/69 stabilisce che le decisioni di mantenere o di sopprimere a termine, totalmente o parzialmente, un obbligo di servizio pubblico, prevedono, per gli oneri che ne derivano, la concessione di una compensazione determinata secondo i metodi comuni di cui agli articolo 10, 11, 12 e 13.
L'art. 10 del regolamento, in specifico, prevede che per quanto riguarda l'obbligo d'esercizio o di trasporto, l'ammontare della compensazione prevista all'articolo 6 è pari alla differenza tra la diminuzione degli oneri e la diminuzione degli introiti dell'impresa che può derivare, per il periodo di tempo considerato, dalla soppressione totale o parziale corrispondente dell'obbligo in questione.
Tuttavia, se gli svantaggi economici sono stati calcolati suddividendo i costi complessivi sostenuti dall'impresa per la sua attività di trasporto fra le varie parti di questa attività di trasporto, l'ammontare della compensazione è pari alla differenza fra i costi imputabili alla parte dell'attività dell'impresa interessata dall'obbligo di servizio pubblico e l'introito corrispondente.
L'art. 17, n. 2, primo comma, del regolamento n. 1191/69 dispone ancora che le compensazioni risultanti dall'applicazione del presente regolamento sono dispensate dalla procedura di informazione preventiva di cui all'articolo 88, paragrafo 3, CE.
Infatti, pur avendo come obiettivo l'eliminazione degli obblighi inerenti alla nozione di servizio pubblico, come emerge sia dai primi due considerando, sia dall'art. 1, n. 3, del regolamento n. 1191/69, l'art. 1, n. 5, del medesimo prevede che le competenti autorità degli Stati membri possano mantenere o imporre gli obblighi di servizio pubblico di cui all'art. 2 di tale regolamento per i servizi urbani, extraurbani e regionali di trasporto di passeggeri. Le condizioni e le modalità, compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III e IV del medesimo regolamento, come detto.
Dato che l'obbligo di compensazione, in virtù del regolamento n. 1191/69, è necessariamente legato all'esecuzione di obblighi di servizio pubblico, le imprese che sono considerate fornitrici di un servizio di trasporto pubblico di passeggeri senza che alcun obbligo di servizio pubblico sia loro imposto non potrebbero beneficiare di una tale compensazione.
Peraltro, la concessione da parte di uno Stato membro di indennità di compensazione a imprese di trasporto titolari di una concessione di servizio pubblico e che beneficiano, all'interno di determinati perimetri urbani, di un regime di esclusiva a causa degli obblighi di servizio pubblico a cui esse sono assoggettate non configura un aiuto di Stato vietato dall'art. 87, n. 1, CE nel caso in cui queste imprese esercitino, peraltro, questa attività anche in concorrenza con operatori privati al di fuori di detto perimetro e qualora sia possibile calcolare il costo aggiuntivo derivante dall'adempimento agli obblighi di servizio pubblico.
Infatti, l'art. 87 CE si colloca nelle disposizioni generali del Trattato relative agli aiuti di Stato, mentre l'art. 73 CE introduce nel settore dei trasporti una deroga alle norme generali applicabili agli aiuti di Stato, disponendo che gli aiuti che soddisfano le esigenze di coordinamento dei trasporti o che corrispondono al rimborso di talune servitù inerenti alla nozione di pubblico servizio sono compatibili con il Trattato. Il regolamento n. 1191/69 instaura un regime cui gli Stati membri sono tenuti ad attenersi quando prevedono di imporre obblighi di servizio pubblico alle imprese di trasporto terrestre (v. Corte di Giustizia sentenze Altmark, 24 luglio 2003, n. 280).
Il regolamento n. 1191/69 osta alla concessione di indennità di compensazione qualora non sia possibile determinare l'importo dei costi imputabili all'attività delle imprese interessate esercitata nell'ambito dell'esecuzione dei loro obblighi di servizio pubblico. Poiché le indennità di compensazione di cui trattasi rientrano nell'ambito di applicazione del regolamento n. 1191/69, la compatibilità delle medesime con il diritto comunitario deve essere valutata secondo le disposizioni previste da tale regolamento e non con riferimento alle disposizioni del Trattato relative agli aiuti di Stato.
Nel caso in cui il giudice giunga alla conclusione che dette indennità non sono state concesse in conformità con il regolamento n. 1191/69, spetta al medesimo, con riferimento all'applicabilità diretta di tale regolamento, trarne tutte le conseguenze, conformemente al diritto nazionale, per quanto riguarda la validità degli atti che comportano l'attuazione di dette indennità.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il Giudice comunitario ha esplicitamente affermato che quando un giudice nazionale constata l'incompatibilità di talune misure di aiuto con il regolamento n. 1191/69, spetta al medesimo trarne tutte le conseguenze, conformemente al diritto nazionale, per quanto riguarda la validità degli atti che comportano l'attuazione di dette misure (Corte giustizia CE, sez. II, 7 maggio 2009, n. 504).
Pertanto, anche per il giudice comunitario si realizza, in caso di contrasto con la disciplina comunitaria di cui al Regolamento sui trasporti, un caso di invalidità, ma secondo il regime del singolo stato membro, che per il nostro ordinamento, come si è detto, è il regime dell’annullabilità/impugnabilità propria degli atti di esercizio (unilaterale o consensuale) del potere pubblico.
Pertanto, non avendo esercitato, in questo giudizio, l’azione di annullamento all’uopo prevista avverso l’accordo per violazione di legge (comunitaria), il ricorso non può trovare accoglimento.
Peraltro, anche a volere ritenere che, nello schema logico e giuridico del processo impugnatorio avanti al G.A., sia ammissibile la mera azione (atipica) di accertamento dell’illegittimità (prospettiva accolta dal Consiglio di Stato con le note sentenze, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717 e 15 aprile 2010, n. 2139), sia in quanto ciò corrisponderebbe all’effettività di tutela di cui all’art. 24 Cost., di cui l’art. 113 è rappresenta soltanto una species (sottoforma di tutela costitutiva-demolitoria), sia in quanto l’azione di accertamento è il passaggio logico necessario per l’annullamento, sia in quanto l’azione di accertamento non è prevista espressamente neppure nel processo civile ove la si ritiene implicitamente e pacificamente sussistente e anzi necessaria, sia in quanto si voglia ottenere un accertamento giurisdizionale al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere amministrativo (es. sostituzione della clausola), sia, infine, in quanto anche la tradizionale configurazione del giudizio di annullamento come giudizio sull’atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato, la domanda di parte ricorrente non può trovare accoglimento.
In disparte le ovvie considerazioni in tema di violazione dei termini per proporre il ricorso, che devono comunque essere omogenei tra azione di annullamento e di accertamento, altrimenti eludendo la disciplina cogente della decadenza, si deve osservare che non può comunque disporsi, anche soltanto in via di ottemperanza, una sostituzione della clausola automatica, come aspira il ricorrente in giudizio (facendo riferimento all’art. 1339 c.c. che, come abbiamo detto, non è applicabile) nel caso di specie.
Anche a prescindere dal riferimento testuale alla disposizione codicistica, la sostituzione automatica presuppone che vi sia una clausola che automaticamente possa entrare al far parte del regolamento contrattuale, il che non è nel caso in esame.
Infatti, come si evince a livello comunitario (sentenza cd. “Combus” 16 marzo 2004, Causa T-157/01 del Tribunale di primo grado delle Comunità europee) si deve operare un’importante distinzione, all’interno del Reg. (CEE) 1191/69 e 1893/91, tra obblighi di servizio pubblico e contratti di servizio: gli obblighi di servizio pubblico sussistono solo in caso di mantenimento o imposizione di obblighi di servizio pubblico (prescindendo da una contrattazione con l’impresa) con la conseguenza che devono essere applicati i metodi comuni di compensazione previsti nel Regolamento (punto 77); nei contratti di servizio pubblico vige un regime puramente contrattuale sotto il profilo contenutistico che, come tale, non prevede, ai sensi del regolamento, né un obbligo di servizio pubblico né una compensazione. Le prestazioni di trasporto fornite sono remunerate con il prezzo contrattuale concordato dalle parti (punti 77-82). Nel sistema a regime del trasporto pubblico locale gli obblighi di servizio non sono imposti alle imprese, ma diverrebbero oggetto di un accordo contrattuale nel quale il prezzo deve essere determinato nel rispetto dei metodi comuni stabiliti nel Reg. (CEE) 1191/69 – 1893/91 di cui si è detto.
Ai sensi del reg. Cee n. 1191/69 del Consiglio, adottato il 26 giugno 1969, ma nel testo risultante dalle modifiche introdotte con il regolamento Cee n. 1893/91, adottato dal Consiglio il 20 giugno 1991, le imprese concessionarie di servizi pubblici di trasporto hanno diritto alla compensazione piena ed effettiva dei maggiori costi sostenuti in stretta correlazione con gli obblighi ad essi imposti dalle autorità concedenti (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29 agosto 2006, n. 5043).
Infatti il Regolamento CEE n. 1191/69 del Consiglio adottato il 26 giugno 1969, nel testo risultante dalle modificazioni introdotte con il Regolamento CEE n. 1893/91 adottato dal Consiglio in data 20 giugno 1991, nel prevedere che gli Stati membri possono escludere dal suo campo di applicazione le imprese la cui attività è limitata esclusivamente alla fornitura di servizi di trasporto urbani, extraurbani o regionali (attività svolta dalla Fontaneto s.p.a. per quel che qui interessa) espressamente dispone che le condizioni modalità compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III, e IV.
Nella sezione seconda del Regolamento CEE qui in esame, nel dettare le regole comuni per la soppressione o il mantenimento totale o parziale di un obbligo di servizio pubblico, il legislatore comunitario ha chiarito, in modo non equivoco, che le decisioni di mantenere o di sopprimere a termine, totalmente o parzialmente, un obbligo di servizio pubblico, prevedono, per gli oneri che ne derivano, la concessione di una compensazione determinata secondo i metodi comuni già ricordati (articoli 10, 11, 12, 13 e articolo 6, comma secondo).
La sostituzione, dunque, non potrebbe ritenersi automatica, poiché il Regolamento comunitario non prevede una clausola rigida e specifica, bensì soltanto un metodo di calcolo che, potendo presentare margini di negoziabilità da parte dei paciscenti, in quanto oggetto di un accordo, come si è detto, non è suscettibile di immediata applicazione.
In altre parole, cogente a livello comunitario è il metodo non il risultato, che può presentare margini, pur ristretti, di variabilità e che, molto opportunamente, il Regolamento comunitario lascia nella disponibilità delle parti e nell’ambito della negoziazione volta alla conclusione dell’anzidetto “contratto”.
Pertanto, difettando il presupposto dell’automatismo, la richiesta di sostituzione ex art. 1339 c.c., anche ammettendone l’applicabilità nel caso di specie (ma si è esclusa), non può esser accolta.
Pertanto, alla luce dell’insieme delle predette argomentazioni, il ricorso deve essere respinto, in quanto infondato.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, II sezione, pronunciandosi sul ricorso in epigrafe indicato, lo respinge.
Compensa tra le parti le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 26 maggio 2010 con l'intervento dei Magistrati:
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Presidente FF, Estensore
Manuela Sinigoi, Referendario
Antonino Masaracchia, Referendario


DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/06/2010

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